ROM, un soffio di vento
Un piccolo ricordo per introdurvi nel presente lavoro: all’inizio del XX secolo le carceri minorili di New York erano piene di ragazzini italiani. L’odio nei confronti degli italiani era cieco. Perché? Perché gli italiani rappresentavano la povertà che sfondava con irruenza nella nuova società americana in crescita, che della povertà voleva dimenticarsi o al massimo relegarla ai margini e sfruttarla. L’italiano era il diverso, “minacciava”. Questo reportage è nato pensando al fatto che alcune cose, alcuni concetti, sono molto semplici e che, in realtà, non c’è nulla di complicato nella “questione ROM” se non le barriere mentali che noi stessi costruiamo. Il mio lavoro non dirà molto sui rom. Non c’è ne bisogno. C’è invece bisogno di analizzare i meccanismi che stanno alla base di giudizi, pensieri e comportamenti individuali e collettivi. C’è bisogno di trovare risposte sensate. Senza tanto chiedersi da dove vengano e dove vadano questi “ROM”. Questo popolo si sta ormai sempre più omologando a noi, alla nostra società, senza rendersi conto (o forse si?) di aver ormai perso gran parte della propria cultura. “Integrarsi”, questo deve fare un uomo di etnia, religione o cultura diversa, poiché integrazione significa convivere civilmente ed essere rispettati nella propria diversità; quindi non omologarsi, che è un atteggiamento molto più diffuso nella nostra società. Sicuramente in molti casi i rom non riescono ad accettare i cambiamenti che la società gli chiede, ed è per questo che dovremmo capirci meglio entrambi, e riuscire a venirci incontro. Da parte mia, all’inizio, ero desideroso di entrare in un altro mondo o in un’altra cultura; vedere, costruire, tenendo conto che avrei mostrato una storia, forse, non facile ma in ogni caso piena di valori. Tutto questo si è scontrato con le ragioni di una cultura povera. Mi sono reso conto che i problemi erano enormi ed inevitabilmente mi sono interrogato ancora di più su cosa volesse dire “fotografare”, fare comunicazione, far emergere problematiche, valori nuovi, diversi, da non trascurare. Questa, al di là delle foto, è stata forse l’esperienza più interessante perché mi è servita proprio come linguaggio di apertura per il mio lavoro. Non ho mai fatto fotografie di nascosto perché non mi andava di sottrarre o aggiungere niente di non reale. Non volevo neanche cadere nella “bella immagine” perchè l’intento era quello di lavorare a un progetto continuo di consapevolezza, sia mia che loro. Certo c’era il rischio di metterli in posa, ma sempre con questa reciproca consapevolezza. Nella cultura dello scambio reciprocamente perseguita la fotografia è stato proprio il bene scambiato, l’immagine dello scambio. E questo ora vi dico: se parliamo rifiutando l’umanità dell’altro e non ragioniamo sull’origine dei suoi comportamenti siamo noi a non essere umani.